Francesco Lattanzi: “Alla morte” è un disco di rinascita

mag 22, 2023 0 comments

Bel sapore agrodolce che arriva sin dal titolo di questo nuovo disco del cantautore toscano Francesco Lattanzi. “Alla morte” lascerebbe presagire altro se non fosse subito l’immagine di copertina dai colori pastello, un gelato e un mondo intero a farci pensare che forse non è il buio l’elemento portante di tutto. “Alla morte” è un disco di rinascita: Lattanzi sceglie strade classiche e ritualità da folksinger per parlare dell’uomo e del suo modo di stare al mondo. E l’intervista che segue dimostra quanto sia centra l’uomo in un disco simile… e sentiremo parlare delle terre di guerra, sentiremo spesso parlare di guerra. E non per la morte… ma per capirne la vita. 

Torni in scena con un disco dal titolo forte. Una provocazione?
Lo è. D’altronde oggigiorno se non fai qualcosa di eclatante rischi di rimanere nella penombra. La provocazione riguarda soprattutto l’aspetto etico del periodo in cui viviamo. Sembra proprio che le più basilari regole morali siano state messe nel dimenticatoio per lasciare spazio alla tracotanza, l’interesse, l’egoismo, l’insensibilità, il culto della mediocrità. E mi fermo qui. E’ la morte dei valori quella che regola le nostre relazioni oggi, di qui il titolo del disco.

Quanta vita c’è invece dentro questo lavoro?
Sono passati dieci anni dal primo disco (Turno di notte). Possiamo dire che in questo secondo album ci sono dieci anni di vita o di -morte- se preferite. (Ride)
Di sicuro c’è stato un tentativo di crescita. Dobbiamo concepire la nostra esistenza come una possibilità quotidiana di miglioramento. E questo dovrebbe essere relativo a tutte le attività che svolgiamo. Ho cercato di mettere in questo nuovo lavoro delle regole precise fondate sulla forma chiusa della poesia tradizionale. Dovessi dare un riferimento su tutti, direi che la poesia di Giovanni Pascoli (estremamente musicale oltre tutto) è quella che più è rappresentata nel disco, per stile, figure retoriche, scelta del lessico, assonanze, eccetera. Non nascondo di essere stato estremamente influenzato dal poeta romagnolo. In realtà cerco di trarre ispirazione un po’ da tutta la tradizione poetica italiana, che ha pochi eguali nel mondo, ed insisto su questo aspetto perché credo che quella che viene definita  canzone d’autore debba rispondere a dei canoni molto precisi (almeno per quanto riguarda le mie composizioni). Lo faccio per rispondere all’anarchia assoluta che regna nella composizione di molti brani contemporanei. Un’anarchia che si traduce appunto con la scarsissima qualità di ciò che ascoltiamo in radio ogni giorno. Il bello è che certe immondizie musicali, come le avrebbe definite Battiato, hanno il plauso della gente e magari vincono premi prestigiosi per il loro “valore musical-letterario”. Evito di fare nomi, ma chiederei volentieri alle industrie discografiche (sono loro in realtà che pilotano tutti i maggiori festival musicali in Italia oggi e che decidono chi deve vincere e chi deve rimanere fuori dalla musica che conta) di spiegarceli i parametri su cui si fondano le loro valutazioni. Quali sono gli spunti letterari di certe canzoni che ricevono premi anche molto rilevanti in ambito cantautorale ? Ce lo vengano a spiegare i Soloni dei talent show. Io nel mio piccolo ho cercato di mettere un punto a questo sfacelo qualitativo che vive la canzone d’autore oggigiorno, e ho cercato di farlo, quantomeno formalmente. Poi se ci sono riuscito anche nella sostanza, beh questo lo dirà la storia. 

 
Si parla di cose eterne ma di luoghi e racconti passati. L’attualità come si coniuga nel disco?
Sono sempre stato convinto che il nostro passato, nel bene e nel male ci dice chi siamo, e dovremmo fare tesoro dei suoi insegnamenti. Purtroppo troppo spesso perdiamo il contatto con la realtà proprio perché non diamo importanza alla strada che abbiamo fatto fino al momento in cui agiamo, nella contemporaneità. E questo avviene anche se volessimo fare un discorso meno personale e più globale. Un percorso puramente storico. Poi sul dualismo caducità/eternità, e dovreste credermi sulla parola, chiunque produca e pubblichi un libro, o dipinga un quadro, o scriva una poesia, magari dice di farlo per condividere l’idea con pochi intimi, in realtà spera sempre che quell’opera abbia la massima divulgazione possibile, sia oggetto dell’attenzione del maggior numero possibile di persone. Sia fruita dal grande pubblico. Questa ambizione c’è sempre. Anche per me, è ovvio. La speranza è che tante persone ascoltino ciò che ho da dire, da proporre, da condividere. E magari riesca nel mio piccolo anche a suscitare qualche emozione. 

E posso azzardare che tanto di queste riflessioni in musica sembrano provenire dalle restrizioni del recente passato?
Passato purtroppo dimenticato. Torno a ripetermi. Anche quando il passato è molto  recente. Io ho iniziato a pensare al brano “Gli angeli di Horlivka” precisamente nell’estate del 2014. Quando, tenendomi aggiornato sul conflitto nel Donbass (di cui all’epoca stranamente nessuno parlava e che oggi viene addirittura stravolto nel suo significato storico da chi ha posizioni preconcette e allineate al mainstream), trovai su internet la foro di madre e figlia, Kristina e Kira Zhuk, a terra in un parco di Gorlovka (Horlivka in ucraino) vittime della furia di una formazione paramilitare neonazista, emanazione del governo di Kiev. E’ una foto che ha fatto il giro del mondo. Dalle nostre parti questa ed altre foto, ed altri eventi annessi, sono stati acconciamente taciuti, oscurati, esclusi dalla libera informazione occidentale. Oggi per me quel passato ha un senso. Su cui era necessario riflettere. Decisi di scrivere un brano su quegli eventi e di legarlo ad un periodo più lontano, la seconda guerra mondiale e la campagna di Russia. Entrambi i fatti hanno avuto luogo in questa città. Stesso scenario, ma a distanza di settanta anni l’uno dall’altro. Così è nata la canzone, a cui ha fatto seguito poi il video girato in Bielorussia per riproporre appunto luoghi e situazioni quanto più simili ai fatti narrati. Anche nei dettagli che ad un primo sguardo non si percepiscono nel videoclip. Ho cercato di non lasciare nulla al caso. E vedete però come quel passato, non solo non ci ammonisce sugli errori da non commettere più, ma viene distorto, reinterpretato ad uso e consumo della nostra casta e questo avviene quasi sempre per pura convenienza politica. Nel mio disco ho dedicato un brano, agli ultimi , ai derelitti, ai dimenticati. E’ una cover di Ralph Mc Tell. Si intitola “Strade di Londra” (Streets of London). In una sua intervista, questo grande cantautore, ricordava il significato della parola pop, intendendo musica pop naturalmente. E rammentava come pop stia per “popolare”, cioè quella cosa che induce il popolo a pensare, a riflettere. E credo che la musica e/o la canzone d’autore ricopra questo ruolo, o meglio dovrebbe ricoprire questo ruolo così come avveniva negli anni sessanta e settanta. Senza avere la pretesa di insegnare qualcosa a qualcuno, ma di stimolare la riflessione di qualcuno. Purtroppo la nomenklatura, ad oggi, ha come scopo principale l’ annichilimento delle coscienze, affinché la gente non pensi più e non abbia più strumenti per contestare. E l’industria musicale è allineata a questo modus operandi che tenta di rendere soporifera l’atmosfera culturale nel nostro paese. 

Parlando di produzione… com’è nato questo nuovo disco?
Ci incontrammo qualche anno fa nello studio di Andrea Mattei, assieme a Gianni Ferretti (si sono occupati loro dell’arrangiamento dei brani) e Valdo Casali (il batterista). Abbiamo ragionato su come strutturare l’album e che taglio musicale dovessimo dargli. Gran parte delle canzoni erano già pronte, alcune appena incomplete. Avevamo deciso di uscire con il disco nel gennaio del 2019 , in concomitanza con il ventennale dalla morte di Fabrizio De André. Avevamo concepito il disco anche come una specie di omaggio al cantautore genovese. Poi ascoltando e riascoltando i brani ci siamo resi conto che alcune cose non funzionavano e abbiamo iniziato a rimaneggiare alcuni brani. Nel frattempo è arrivata la pandemia che ha spostato l’uscita del disco di mesi e poi di anni. E ci siamo trovati a pubblicarlo con più di quattro anni di ritardo rispetto a quanto preventivato. Ma sono sicuro che sia stata la scelta giusta. Le cose vanno fatte, non bene, ma meglio di quanto vorresti che fossero. Dal punto di vista delle sonorità presenti, di cui tanti vostri colleghi mi hanno chiesto nelle passate interviste, abbiamo percorso la via della “classicità”. Gli arrangiamenti sono senza fronzoli. Non servivano esperimenti sonori per dare risalto a questi testi. Il tempo per sperimentare ci sarà. Ma per queste canzoni, oggi ne siamo più che convinti, servivano abiti musicali semplici, lineari, asciutti. Classici, per l’ appunto.

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