Con il nuovo singolo “Il peso dell’amore”, Cristina Bonan firma un brano intimo e struggente che affronta il vuoto lasciato dalla fine di una relazione. Le parole si muovono tra i ricordi dei piccoli gesti condivisi, mentre l’arrangiamento minimale accompagna con delicatezza una voce sospesa tra nostalgia e consapevolezza. È la storia di una perdita che obbliga a fare i conti con la solitudine, con una quotidianità che non si riconosce più e con la necessità di ricominciare da capo. Ma “Il peso dell’amore” non è solo malinconia: è anche la lenta risalita verso una nuova versione di sé, più lucida, più forte. In questa intervista, Cristina ci conduce nel dietro le quinte emotivo e sonoro del brano, raccontando il percorso creativo che l’ha portata a trasformare una ferita in canzone.
L’atmosfera del brano è nostalgica e sospesa: come hai lavorato con la produzione per rendere questa sensazione?
Fin da subito l’idea era quella di riflettere quella sensazione di sospensione e malinconia che il brano porta con sé. I suoni scelti infatti, cercano di creare un paesaggio sonoro che accompagni la voce e il testo della canzone, in modo da portare l’ascoltatore in una sorta di bolla emotiva che rievochi immagini ed emozioni. È stato un lavoro di sottrazione più che di aggiunta, ed è proprio lì che abbiamo trovato la sua forza.
Hai scelto di usare suoni più minimali o ti sei lasciata guidare da istinto ed emozione?
L’istinto è sempre il primo passo, è quello che ti guida quando senti che una melodia o un suono risuonano dentro di te in modo autentico. Dopo questa prima fase più spontanea, è chiaro che ci vuole un ascolto e delle aggiustature guidate da un orecchio più razionale. In questo caso, abbiamo scelto una direzione sonora piuttosto minimale, perché è quella che meglio lascia spazio a ciò che parole e voce vogliono trasmettere. L’emozione deve sempre essere al centro, ma con equilibrio, altrimenti si rischia di perdere il messaggio.
Come è stato passare dalla scrittura del testo al vestito sonoro del pezzo?
È stato un passaggio molto delicato, quasi come cucire un abito su misura. Il testo aveva già una sua forza, una sua identità, ma serviva un accompagnamento musicale che ne valorizzasse la vulnerabilità. Il brano ha preso forma poco alla volta, come se avesse bisogno di tempo per svelarsi completamente. Quando finalmente parole e suono si sono fusi, ho capito che era la versione più autentica possibile di quella storia.
Ti piace partecipare attivamente anche alla parte produttiva dei tuoi brani?
Assolutamente sì, ma ammetto che non ho ancora tutta l’esperienza tecnica per intervenire in modo diretto su ogni aspetto della produzione. Però mi piace ascoltare, proporre idee, suggerire sensazioni che vorrei far arrivare a chi ascolta. In studio cerco sempre di essere parte del processo, anche se poi la parola finale spetta sempre al produttore, che ha le competenze per fare scelte più mirate.
C’è uno strumento che senti più tuo quando componi?
Il pianoforte è sicuramente il mio punto di partenza, il mio rifugio creativo. È lo strumento con cui riesco a esprimermi meglio, è lo strumento che mi ha “insegnato la musica” e quello su cui ho imparato a raccontarmi in musica. Molti dei miei brani nascono proprio lì, in modo molto naturale: una melodia, un giro di accordi, magari qualche parola che mi salta per caso alla mente. Poi, ovviamente, il pezzo cresce grazie all’arrangiamento e alla produzione, ma il cuore resta sempre quello. Al pianoforte riesco a trovare un dialogo sincero con me stessa, ed è da lì che nasce tutto.