Luca Bocchetti: il nuovo disco è “Vado mo’?”

mar 7, 2023 0 comments
 

Decisamente col piglio romano, anzi romanesco… ma non troppo, anzi poco. Decisamente un taglio blues, ferroso, ma neanche troppo, anzi direi molto pop in tante sue parti. “Vado mo’?” è un disco (anzi un EP) romantico, che la vita la vede e la rigira tra le dita, è un disco che scivola con una sensibilità interessante forte di una sicurezza estetica che non è poca cosa… uno di quei dischi che somigliano tantissimo al suono live che vedremo in scena… anzi, penso proprio sia uno di quei dischi che finisco per somigliare proprio all’uomo che ci sta dietro. Fermiamo Luca Bocchetti dentro queste domande per conoscerlo da vicino…
 
Parliamo di produzione: un disco home-made oppure anche detto one man band. Cosa ti è mancato e cosa invece ti ha concesso?
Ho lavorato in assoluta libertà, di mattina, di giorno, di notte, in mutande, con la giacca, a volte registrando parti un momento dopo averle pensate o ripetendo una take decine di volte, fino ad essere sicuro di aver detto esattamente quello che volevo dire, senza il problema di snervare una band o un fonico. Ho potuto catturare l’onda di un sentimento istantaneo, avendo sempre il microfono e la chitarra a un braccio di distanza, rilavorandoci poi sopra con il lusso della tranquillità. Per converso, ho dovuto far fronte alle mie imperizie tecniche, all’assenza del confronto con una controparte sapiente – almeno in fase di ripresa – che evidenziasse i lati più deboli di quello che stavo facendo e mi indirizzasse nel consolidarli. Essendo cresciuto musicalmente in una band e tra addetti ai lavori molto competenti, a volte è stato anche frustrante.
 
Parliamo poi di Lucio Vaccaro: che cosa ha dato al suono che non potevi da solo? Che ragione buona c’è stata per rompere la catena del Do it Yourself?
Sono ingenuo e sprovveduto, ma non mi ritengo un’idiota. In musica, come in tante altre cose, il confine tra naturalezza e spazzatura può essere molto labile. È solo grazie a Lucio se ho potuto realizzare il mio esperimento, perché l’idea contenuta nelle mie tracce doveva necessariamente passare per un setaccio che separasse il grano dalla crusca. Non ho competenze in materia di fonia e produzione e, se uno ha veramente rispetto per quello che sta facendo e per le orecchie in cui finirà il suo lavoro, sa che non può improvvisarsi in ambiti di cui non sa nulla. Del resto, anche capolavori come “Roman Candle” o “For Emma, Forever Ago”, nati con lo stesso approccio, hanno dovuto subire pesanti interventi di editing, mix e mastering – tutt’altro che domestici – per raggiungere la forma che conosciamo.
 
Parli di blues e di Tevere. Pensi che le due cose siano inconciliabili e ironiche dentro la stessa frase? Oppure esiste una forma blues anche a Roma?
Chiaramente il mio accostamento è ironico, ma credo ci sia un fondo di verità nell’associazione giocosa tra Tevere e Mississippi. Il blues del Delta è una musica piena di malinconia e lamento, ma è anche molto vitale, perché parla di amore, spirito, lavoro e sopravvivenza, a volte in toni semi-seri. Ha una forte connessione con il carattere instabile e transitorio dell’esistenza, proprio come lo scorrere delle acque, e questo è tipico delle manifestazioni poetiche delle genti cresciute sulle rive di un fiume. Ad esempio, c’è un repertorio tutto da scoprire se si va a rovistare tra i canti e le poesie degli zingari che hanno vissuto per secoli sulle sponde del Tevere, tra il culto e il terrore delle piene e delle secche. Credo che,  in parte, l’indolenza tipica dei romani derivi anche da questa mistica rassegnazione al volere divino, incarnato nel corso del tempo prima dai cicli naturali del fiume, poi dallo Stato Pontificio, infine dall’insondabilità delle istituzioni politiche moderne.
 


Che poi per Luca Bocchetti, per davvero, il Blues cos’è?
Il blues per me non ha necessariamente a che fare con le dodici battute e l’intervallo di quinta diminuita, ma comprende tutto quello che è intimo, spirituale, malinconico e ispirato da una visione destabilizzata del mondo. In questo senso la poesia di William Blake è blues tanto quanto Howling Wolf.
 
Eppure “Glimmer Twins” ha tanto della scena indie italiana… o sbaglio?
È impossibile pulirsi del tutto le orecchie dagli stimoli sonori e musicali che ci circondano. Molti di questi input ci raggiungono senza che siamo consapevoli e finiscono con l’influenzare quello che produciamo. Anche gli strumenti e i mezzi che uso sono quelli del momento in cui vivo, e questo inevitabilmente si ripercuote sulla mia scrittura e sul mio modo di suonare. Ci sono cose della scena indie che apprezzo, molte altre mi sono indifferenti e le sento lontane, ma da un certo punto di vista trovo positivo che se ne riscontrino delle tracce nel mio lavoro: significa non essere un’isola o un contenitore a tenuta stagna privo di legami col mondo esterno.
 
Posso dirti che non ho molto apprezzato il suono di percussioni, di rullante? Anche quello è un deciso lo-fi?
Certo, puoi e devi dirlo. Anzi, trovo sospetto il fatto che questo genere di osservazioni non sia stato avanzato da altri interlocutori. Quello che percepisci come fastidioso, grezzo o spiacevole è il fulcro del lo-fi. Le batterie elettroniche (che non fanno esattamente parte del mio background musicale) sono state tirate fuori brutalmente dalla macchina che le ha prodotte (una Drumbrute, guarda caso) per essere il corrispettivo digitale di un piede che batte. C’è l’approssimazione fonica dell’urgenza e del nervosismo, cosa che ha fatto impazzire Lucio nel missaggio, ma che rispecchia pienamente lo spirito con cui è stato concepito il tutto.
 
E quel “Mo sto a casa” invece come anche certe pennellate di “Capoccia e serietà” mi riportano lontano nel passato italiano degli anni ’60… che mi dici?
La gran parte dei miei riferimenti italiani viene da quel repertorio, tutta musica che sta tra gli anni ‘60 e ‘70. Questo vale tanto per i testi che per i richiami sonori. Resto ancora sbalordito dalla modernità dei sintetizzatori di “Io tu noi tutti” e dal loro modo di suonare sempre nuovi e sorprendenti pur facendo parte del retaggio musicale di svariate generazioni. Ma in questo non credo di essere particolarmente originale, mi sembra che tutte le produzioni di stampo autoriale degli ultimi vent’anni passino per quella via e paghino un loro personale tributo ai dischi di quel periodo, dai Baustelle a Giorgio Poi, passando per Riccardo Sinigallia e Giovanni Truppi.

 

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